1. STORIA DEL PARKINSON
Ben prima che Ippocrate e Galeno definissero i canoni della medicina occidentale, nel 600 avanti Cristo il medico indiano Charaka scrisse il Charaka Samhita (la raccolta di Charaka), un compendio di pratiche mediche, già in uso in India da secoli, che ancora oggi costituiscono le fondamenta della medicina ayurvedica. Nel suo libro, egli parlò della Kampa Vata (termini sanscriti che indicano, rispettivamente, “tremore” e “forza energizzante del corpo e della mente”) descrivendo quella che oggi è nota come malattia di Parkinson. Charaka anticipò di più di duemila anni il medico inglese James Parkinson, autore di un breve saggio del 1817 intitolato “Shaking Palsy” (paralisi agitante) dove descrisse una sindrome caratterizzata da tremore, rigidità e riduzione del movimento che, successivamente, venne a lui intitolata.
Ma le intuizioni e scoperte di Charaka non si fermarono qui. Il medico ayurvedico consigliava di trattare i suoi pazienti con la Mucuna pruriens (Kapikachhu in sanscrito), una specie di pisello violaceo dai cui semi tostati si ricava una bevanda simile al caffè, dalle proprietà afrodisiache. Il segreto di questa pianta nell’alleviare i sintomi del Parkinson, certamente ignoto a Charaka, è che contiene una certa quantità di levodopa, il primo principio attivo anti-Parkinson usato con successo negli anni ’60. Ancora oggi, anche in occidente, la Mucuna pruriens è utilizzata dai pazienti affetti da questa malattia.
L’origine e la causa del morbo di Parkinson sono ad oggi ignote. Anche se in un 5% di pazienti affetti sono state riscontrate mutazioni di specifici geni, si ritiene che esso sia dovuto ad una combinazione di predisposizione genetica e fattori di rischio non ancora ben compresi.
Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta, che colpisce principalmente intorno ai 60 anni di età, con una prevalenza maggiore tra gli uomini. È caratterizzata dal progressivo accumulo di una proteina chiamata α-sinucleina, in inclusioni denominate corpi di Lewy, presenti a livello della substantia nigra, una particolare area del cervello (mesencefalo) che controlla i movimenti. Ciò causa una diminuzione della sintesi e del rilascio di dopamina, un importante neurotrasmettitore coinvolto nella neuromodulazione, cioè nella modulazione delle attività cerebrali.
Il Parkinson è caratterizzato da sintomi cosiddetti motori e da sintomi non motori, che si possono manifestare nei vari stadi della malattia.
I sintomi motori sono principalmente:
- Tremore;
- Rigidità muscolare;
- Bradicinesia, ossia lentezza dei movimenti;
- Instabilità posturale.
I sintomi non-motori includono:
- Ansia e depressione;
- Dolore;
- Disturbi cognitivi e del linguaggio;
- Sonno difficoltoso.
Il trattamento di scelta prevede l’utilizzo di levodopa (L-dopa) o analoghi, che aumentano la biodisponibilità della dopamina e contrastano l’insorgenza dei sintomi. Questi farmaci sono molto efficaci all’inizio della terapia ma vanno incontro ad un rapido fenomeno di tolleranza, per cui perdono notevolmente di efficacia con il tempo. L’utilizzo di questi farmaci è stato associato allo sviluppo di sintomi motori avversi, in particolare discinesia (movimenti involontari).
Gli agonisti dopaminergici e gli inibitori delle monoammino ossidasi (MAO) hanno mostrato anch’essi efficacia, ma gli effetti collaterali sono spesso insostenibili. La chirurgia, che comprende la stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation, DBS) o l’intervento lesionale, viene utilizzata per ridurre i sintomi motori nei casi più gravi.
Una corretta alimentazione e interventi di riabilitazione sono molto utili per trattare i sintomi. In questo sia Charaka che James Parkinson erano concordi: anche se così distanti nel tempo e nello spazio, i due medici credevano fortemente nell’idea che la prevenzione fosse il rimedio più efficace per qualsiasi patologia.
Una cura efficace per la malattia di Parkinson, che si mantenga tale nel tempo, non è stata però ancora trovata.
2. CANNABIS, CANNABINOIDI E NEUROPROTEZIONE
Le malattie neurodegenerative -il Parkinson e il morbo di Alzheimer sono le più diffuse- sono caratterizzate da una progressiva perdita della funzionalità neuronale. Per queste malattie, l’infiammazione, la risposta immunitaria in generale e lo stress ossidativo sono tra i fattori principali che causano danni e disfunzioni dei neuroni.
La Cannabis e i cannabinoidi –THC, CBD e THCV principalmente- hanno proprietà anti-infiammatorie e anti-ossidanti ormai stabilite da decenni di ricerche e ciò contribuisce al loro effetto neuroprotettivo. [1]
La neuroprotezione indotta dalla Cannabis si esplica anche attraverso altri meccanismi:
- Inibizione della trasmissione glutammatergica nel cervello e conseguente riduzione dell’eccitotossicità (un fenomeno di tossicità neuronale conseguente all’esposizione a concentrazioni relativamente alte di acido glutammico, un neurotrasmettitore);
- Miglioramento della funzione della barriera emato-encefalica, che protegge il cervello da sostanze esterne;
- Regolazione del flusso ematico cerebrale;
- Riduzione del danno conseguente a lesioni cerebrali traumatiche;
- Regolazione della morte cellulare programmata.
Oltre ad essere neuroprotettiva, la Cannabis è una sostanza ben tollerata, con modesti effetti collaterali. Per questo motivo, la ricerca scientifica da qualche tempo sta indagando se le potenzialità della Cannabis Terapeutica e dei suoi costituenti potrebbero essere sfruttate anche per trattare i sintomi del Parkinson.
3. CANNABIS E CANNABINOIDI NEL CONTROLLO DEI MOVIMENTI
Oltre a indurre effetti neuroprotettivi, il Sistema Endocannabinoide è espresso anche in molte aree del cervello che controllano i movimenti. I recettori CB1 si trovano in grandi quantità nella substantia nigra e nei gangli della base del Sistema Nervoso Centrale (SNC). Qui troviamo anche concentrazioni elevate di endocannabinoidi, soprattutto anandamide. I recettori CB2 non sono molto espressi nel SNC, anche se sono stati trovati in molte cellule non-neuronali, come astrociti e microglia, con funzione di protezione immunitaria.
I ricercatori dell’Università del Colorado hanno recentemente dimostrato che attivando i recettori CB1 presenti sugli astrociti del midollo spinale, si riduce il tremore in modelli animali di tremore essenziale. [2]
Il THCV, un fitocannabinoide presente in minori quantità nella pianta di Cannabis, dotato di proprietà anti-infiammatorie e anti-ossidanti, migliora i sintomi del Parkinson in modelli animali, probabilmente attraverso l’interazione con i CB2. [3]
Anche altri recettori del Sistema Endocannabinoide, come i GPRs e TRPs, sono implicati nella neuroprotezione e nel controllo dei movimenti del corpo.
Uno studio del 2014 in un modello animale di Parkinson, ha dimostrato che la deplezione del recettore GPR6, un recettore simile ai recettori cannabinoidi GPRs, presente nei gangli della base, induce un aumento della dopamina nel cervello e un miglioramento dell’attività motoria, soprattutto della discinesia indotta dalla levodopa. [4] Qualche anno dopo è stato dimostrato che il CBD agisce come agonista inverso del GPR6 e per questo potrebbe essere utilizzato come potenziale trattamento per il Parkinson. [5]
4. PARKINSON E CANNABIS: DAGLI STUDI PRECLINICI AGLI ESPERIMENTI SULL’UOMO
Nonostante una grande quantità di dati sperimentali pre-clinici sugli effetti neuroprotettivi e di riduzione del tremore indotti dalla Cannabis e dai cannabinoidi, gli studi effettuati sull’uomo non hanno dato risultati definitivi, tali da giustificarne l’impiego in terapia.
Uno studio pilota britannico del 2001 ha mostrato che il nabilone, un analogo sintetico del THC, era in grado di ridurre la discinesia indotta da levodopa. [6] Lo studio però è stato effettuato su un ridotto numero di pazienti [7] e non prevedeva il confronto con il placebo.
Un altro studio britannico del 2004, randomizzato e con placebo, con 17 partecipanti, ha invece mostrato che la Cannabis, seppur ben tollerata, non induceva miglioramenti nella discinesia e nel parkinsonismo. [8]
Neanche il CBD ha mostrato effetti significativi nella riduzione dei sintomi motori del Parkinson, anche se in uno studio brasiliano del 2014, i 21 pazienti trattati hanno riportato un miglioramento generale della qualità della vita. [9]
Sempre in Brasile, i ricercatori hanno somministrato CBD o placebo ad una ventina di pazienti con Parkinson, prima di sottoporli ad un test dove era richiesto parlare in pubblico. In questa simulazione di una situazione ansiogena, i pazienti che avevano ricevuto una dose di 300 mg di CBD, hanno mostrato una diminuzione dell’ansia e del tremore. [10]
Anche il nabilone sembra migliorare la qualità della vita dei pazienti parkinsoniani. Nel 2020 i ricercatori del Gruppo di lavoro sulla malattia di Parkinson dell’Università di Innsbruck (Austria) hanno mostrato che 4 settimane di trattamento con nabilone miglioravano l’ansia e i disturbi del sonno in pazienti con Parkinson. [11]
5. IL PUNTO DI VISTA DEI PAZIENTI
Se i dati clinici non sembrano supportare l’utilizzo della Cannabis Terapeutica e dei cannabinoidi nel Parkinson, il punto di vista dei pazienti è invece differente. Basta una semplice ricerca su Google per trovare testimonianze dirette di come l’utilizzo della Cannabis abbia migliorato la vita di tantissime persone affette da Parkinson. Persone che, in generale, non riuscivano più ad avere sollievo dall’utilizzo dei farmaci tradizionali. I sintomi non-motori come ansia e disturbi del sonno sembrano quelli che beneficiano maggiormente dell’utilizzo di Cannabis, ma non mancano testimonianze di pazienti che riportano miglioramenti del tremore e della rigidità posturale.
Per restare nell’ambito accademico, queste testimonianze sono supportate da varie survey, sondaggi effettuati con criteri scientifici ben precisi.
L’ultimo in ordine di tempo è stato pubblicato qualche mese fa sul Journal of Parkinson Disease, ad opera dei ricercatori dell’università di Amburgo, in Germania.
Per valutare il punto di vista della comunità parkinsoniana tedesca, sono stati analizzati 1.348 questionari. L’uso di Cannabis è stato riportato da 8.4% dei pazienti. Di questi, la maggior parte sono più giovani dei non utilizzatori, vivono in grandi città e conoscono meglio gli aspetti legali e clinici della Cannabis Terapeutica. La riduzione del dolore e dei crampi muscolari è stata riportata da più del 40% dei consumatori di Cannabis. Più del 20% ha riportato miglioramenti nella rigidità/acinesia, immobilità, tremore, depressione, ansia e sindrome delle gambe senza riposo. Il miglioramento dei sintomi è stato riportato dal 54% degli utenti che hanno assunto CBD per via orale e dal 68% che hanno inalato Cannabis contenente THC. Rispetto all’assunzione di CBD, l’inalazione di THC è stata riportata più frequentemente per ridurre l’acinesia e la rigidità. Non sono stati riferiti particolari effetti collaterali. Il 65% dei non consumatori si è dichiarato interessato all’utilizzo di Cannabis Terapeutica. [12]
6. PARKINSON E CANNABIS: POCHI STUDI SULL’UOMO E DIFFICOLTÀ NEL REALIZZARLI
Come mai ci sono queste discrepanze tra i dati degli studi clinici e il punto di vista dei pazienti?
Una spiegazione potrebbe essere quella dell’effetto placebo. Sapendo che utilizzano Cannabis, i pazienti sono portati a sentirsi meglio proprio perché si aspettano che la Cannabis induca loro dei miglioramenti. L’effetto placebo è comunque importante, ma per supportare l’uso di Cannabis Medica nel Parkinson ed evitare false speranze nei pazienti, è opportuno avere dati scientifici conclusivi, supportati cioè da studi clinici randomizzati, con placebo e in doppio cieco.
Questo tipo di studi, specialmente su un campione ampio di pazienti, non sono facilmente realizzabili. Il motivo principale sono i costi elevati. Normalmente questi costi sono a carico delle aziende farmaceutiche titolari del brevetto del farmaco da testare, che “sponsorizzando” lo studio ne traggano benefici economici qualora esso vada a buon fine.
Per la Cannabis il discorso è più complicato perché, essendo una pianta, non è brevettabile. Anche quando c’è la possibilità di brevettare le formulazioni, come nel caso del Sativex – farmaco a base di estratti di THC e CBD- ci si scontra con un altro grande problema: la Cannabis e il THC (in alcuni casi anche il CBD) sono ancora inserite nelle tabelle degli stupefacenti, in quasi in tutto il mondo. Ciò rende molto complicato avere le necessarie autorizzazioni anche solo per effettuare ricerche su questi composti e, ancora una volta, ciò porta i costi a lievitare.
Per semplificare le cose e non privare migliaia di persone di dati certi su un trattamento che offre grandi potenzialità, contro una malattia per cui non ci sono molti farmaci efficaci a disposizione, sarebbe opportuno un superamento delle leggi proibizioniste non più a passo con i tempi. È più che mai necessario che la Cannabis e i suoi costituenti non siano più classificati come sostanze d’abuso, per rendere più semplice il loro utilizzo nella ricerca e nella terapia.
7. PARKINSON E CANNABIS: CONCLUSIONI
Gli esperimenti effettuati in pre-clinica, su cellule ed animali, indicano che la Cannabis, il THC, il CBD e il THCV hanno grandi potenzialità come trattamento per i sintomi motori e non-motori del Parkinson.
I pochi studi clinici randomizzati e in doppio cieco, effettuati su un esiguo numero di pazienti, non riportano benefici nell’utilizzo di Cannabis e cannabinoidi nel Parkinson.
D’altra parte, una buona percentuale di pazienti che ha utilizzato queste sostanze come terapia anti-parkinsoniana ha riportato benefici, soprattutto un miglioramento della qualità della vita.
Per giungere ad una conclusione definitiva c’è bisogno di studi clinici, ben disegnati, dove vengono presi in considerazione i giusti dosaggi, le varietà di Cannabis più adatte, la miglior via di somministrazione e un numero ampio di pazienti.
Questi studi sono più che mai auspicabili, considerando le migliaia di persone affette da Parkinson ogni anno, ma potranno essere realizzati solo attraverso maggiori finanziamenti alla ricerca e nel momento in cui la Cannabis verrà tolta dalle tabelle degli stupefacenti.